di Dario Guarascio – Sbilanciamoci.info
Lo scorso 7 novembre, la facoltà di Economia della Sapienza ha ospitato un convegno dal titolo ‘Industria 4.0, politiche e prospettive’. La discussione si è mossa sul terreno concreto delle politiche e delle forme che l’Industria 4.0 potrebbe acquisire in Italia nel prossimo futuro. I lavori sono stati aperti da Lorenzo Basso e Stefano Firpo che hanno presentato i contenuti dell’indagine parlamentare appena conclusa ed il piano del governo sull’Industria 4.0. A partire da questo stimolo, si è sviluppato un dibattito che è andato oltre la valutazione del piano del governo e che ha tentato di leggere la trasformazione tecnologica in atto alla luce della situazione economica in cui oggi versa l’Italia.
Prima di dare conto dei diversi interventi, dei dati e delle posizioni emerse nel corso della discussione, è opportuno, però, operare alcune chiarificazioni. Di cosa si parla quando si fa riferimento all’ “Industria 4.0”? Di fatto, il termine allude alla trasformazione delle relazioni economiche e sociali determinato dalla digitalizzazione. Ovvero, dalla diffusione di macchine intelligenti e di dispositivi connessi tra loro e capaci di trasmettere ed elaborare masse enormi di dati ad altissima velocità. Esempi concreti di come tale fenomeno stia incidendo sulle relazioni economiche e sociali sono le professioni svolte tramite le App degli Smartphones – come Uber, Deliveroo, Foodora o Task Rabbit; i sistemi di trasporto basati sulla circolazione di auto o camion privi di pilota – la prima consegna da parte di un camion senza pilota brevettato da Uber è avvenuta in Colorado nel mese di ottobre; la diffusione di robot capaci di aggiornare le loro operazioni elaborando dati in tempo reale – come quelli che, già attivi negli Stati Uniti, cominciano ad essere utilizzati nel settore sanitario per fornire diagnosi immediate ed ‘a prova di umano’ (su questo tema si veda il bel libro di Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro. Einaudi, 2016). Ovviamente, al fianco di questi casi più famosi, vi è una moltitudine di innovazioni meno note che – in particolare in servizi quali la logistica, il commercio e le telecomunicazioni – stanno trasformando il modo di produrre e di consumare.
Si è identificato, dunque, l’oggetto di interesse. Ma perché 4.0? L’idea del governo e della pubblicistica che condivide questa definizione è che la già menzionata digitalizzazione coinciderebbe con una nuova ‘rivoluzione industriale’. La diffusione dei ‘robot intelligenti’ – come quelli che popolano un numero sempre più grande di fabbriche in Asia o quelli che sembrerebbero poter sostituire (almeno in parte) infermieri, anestesisti e dottori – ed il moltiplicarsi di professioni dove il datore di lavoro è un algoritmo rappresenterebbero, quindi, una trasformazione analoga a quanto avvenuto con la macchina a vapore (1a rivoluzione), l’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio (2a rivoluzione) o l’avvento dell’Informatica (3a rivoluzione). Ma è proprio così? Siamo effettivamente di fronte ad una rivoluzione? In realtà, le innovazioni tecnologiche di cui stiamo parlando sembrerebbero coincidere con lo ‘sciamare’ Schumpeteriano di nuove (e indubbiamente formidabili) applicazioni di qualcosa che, però, nuovo non è: il paradigma tecnologico dell’ICT. Se ciò è vero, dunque, il termine Industria 4.0 potrebbe risultare fuorviante e la sua adozione, sebbene molto efficace sul piano del marketing, testimoniare la fallacia delle analisi (ma soprattutto delle politiche) che di questo fenomeno, per nulla irrilevante, vorrebbero occuparsi. In quel che segue, si propone una sintesi della discussione andata in scena alla Sapienza mettendo in luce – oltre alla cronaca delle proposte governative e dei punti di vista dei relatori – i nodi che tale fallacia interpretativa sembrano svelare.
La relazione conoscitiva della Camera – condotta coinvolgendo Università, Centri di Ricerca, Organizzazioni Sindacali e Datoriali e, in particolare, investigando lo sviluppo del fenomeno in Germania e in Giappone – ha fornito interessanti risultati. In primo luogo, il ritmo della digitalizzazione appare estremamente rapido – la Germania ha già concluso un piano nazionale Industria 4.0, avviato nel 2011, teso a favorire la diffusione delle infrastrutture digitali in tutto il paese. In secondo luogo, è emerso come nelle economie dove l’Industria 4.0 ha progredito maggiormente, si osserverebbero anche le migliori performance occupazionali. Tuttavia, come lo stesso relatore ha puntualizzato, vi è una profonda incertezza circa gli effetti occupazionali dell’Industria 4.0 e non è da escludere che la dinamica positiva osservata in paesi come la Germania costituisca un fenomeno, da un lato, esauribile nel breve periodo; e, dall’altro, non direttamente riconducibile alla digitalizzazione. L’indagine ha fatto emergere, inoltre, la difficoltà di adeguare l’attuale impianto normativo e di regolamentazione alle nuove modalità di consumo e di produzione. Si pensi a fenomeni quali la ‘sharing economy’: Airbnb per l’affitto di immobili, Blablacar e Uber per il trasporto e così via. Anche in questo caso, peraltro, siamo di fronte ad una definizione infelice e fuorviante che è però rapidamente divenuta gergo comune. L’aggettivo ‘sharing’ (condivisa) sembra suggerire la sparizione dei rapporti di proprietà in relazioni dove, al contrario, questi ultimi permangono inalterati ma vengono altresì esposti all’esercizio del potere da parte di un terzo soggetto: il proprietario dell’infrastruttura informatica. Da questo punto di vista, il legislatore si trova esposto a molteplici difficoltà circa le possibili politiche da implementare: tassare entità multinazionali con enormi capacità di elusione fiscale; tassare o regolamentare l’attività dei singoli privati che partecipano alle infrastrutture in un momento in cui il ricorso a tali infrastrutture costituisce un espediente utile a combattere la crisi economica; tutelare le categorie maggiormente minacciate dall’esplosione di questi servizi e salvaguardare, in particolare nel caso di Airbnb, gli equilibri e le caratteristiche del tessuto urbano e del mercato immobiliare.
I pilastri su cui il piano Industria 4.0 del governo dovrebbe poggiare – piano che muove a partire dei risultati dell’indagine conoscitiva appena menzionata – sono 4. La governance: si è istituita una ‘cabina di regia’ con un numero molto vasto di soggetti che dovrebbero assicurare un implementazione capace di tenere conto di tutti gli elementi di complessità che la digitalizzazione porta con se. Le infrastrutture abilitanti: si tratta delle infrastrutture, tra queste rientra la banda larghissima di cui si sta pianificando la realizzazione, che consentirebbero la diffusione della digitalizzazione e, dunque, delle opportunità dell’Industria 4.0. Le competenze: il piano prevede espressamente la necessità di adeguare le competenze, sia degli studenti ma anche dei lavoratori mediante specifici programmi di formazione, all’introduzione delle nuove tecnologie. L’innovazione aperta: la necessità di rendere accessibili i dati di base utili a generare innovazioni e a sfruttare economicamente in modo libero le opportunità offerte dall’infrastruttura digitale. Infine, è stato sottolineato il ruolo cruciale degli investimenti privati. L’idea di base è che lo sviluppo dell’Industria 4.0 passi attraverso la crescita della propensione ad investire dei soggetti privati allettati dai guadagni di produttività e dagli spazi per la generazione di nuovi prodotti che la digitalizzazione offrirebbe. In termini di politica economica, questo intento si traduce nell’elargizione di sussidi orizzontali – un esempio odierno è l’iper-ammortamento in virtù del quale le imprese che investiranno per il rinnovamento tecnologico godranno, lungo l’intero periodo d’ammortamento e in base allo schema previsto da quest’ultimo, di uno sconto fiscale pari al 250% del costo sostenuto – volti a stimolare suddetti investimenti.
Durante la discussione che è seguita, le parti sociali hanno enfatizzato il ruolo della bassa crescita della produttività – e, con questa, la bassa propensione ad innovare – quale una delle cause principali della bassa crescita italiana tout court. Inoltre, è stata sottolineata l’erronea enfasi posta, negli anni recenti, sul costo del lavoro troppo alto quale causa della scarsa crescita rimarcando, al contrario, la coincidenza di alti salari ed alta innovazione nelle imprese più produttive. Analogamente è stata messo in evidenza il peso negativo della ridotta dimensione di impresa – ridotta dimensione che penalizza la capacità di reperire le risorse per la R&S – sulla capacità innovativa.
Le principali critiche al piano del governo sollevate nel corso del dibattito sono riassumibili come segue. Innanzitutto, diversi relatori hanno messo in dubbio la capacità di stimolare investimenti privati tramite uno schema di incentivi nel momento in cui la domanda aggregata è stagnante. In secondo luogo, si è sottolineato come l’implementazione di misure orizzontali volte a stimolare l’azione autonoma degli agenti privati possa rivelarsi dannosa in un contesto fortemente polarizzato come quello italiano. In altre parole, si è sostenuto come, in un contesto dove un gruppo ristretto di imprese riesce a sostenere la competizione internazionale (anche innovando) ed il resto del sistema patisce una sofferenza crescente, l’elargizione di incentivi rischia di accentuare la polarizzazione favorendo i ‘forti’ allontanandoli sempre più dai ‘deboli’. Una critica ulteriore ha riguardato la scarsa considerazione di temi quali le disuguaglianze e la crisi nella riflessione sull’industria 4.0. Più specificamente, si è richiamata l’attenzione sul fatto che le tecnologie connesse con la digitalizzazione possono peggiorare la posizione di soggetti economici già fragili. La possibilità di organizzare le prestazioni lavorative tramite le App dei cellulari, il controllo a distanza i lavoratori, la concorrenza a liberi professionisti e piccoli produttori esercitata da gruppi come Uber, sono solo alcuni esempi. Si è denunciata, inoltre, la marginalità dell’operatore pubblico nel piano del governo. Ricordando l’importanza dello Stato nel determinare lo sviluppo di innovazioni chiave come Internet, si è posta in evidenza la necessità di un maggiore protagonismo dell’operatore pubblico nel processo di digitalizzazione. Lo Stato potrebbe rivelarsi un soggetto cruciale per favorire una diffusione equilibrata e non asimmetrica delle opportunità connesse alla digitalizzazione; potrebbe iniettare la domanda pubblica necessaria per stimolare in modo più efficace gli investimenti privati in innovazione; e potrebbe occuparsi di tutelare i soggetti più vulnerabili dalle possibili conseguenze negative associate all’introduzione di queste tecnologie.