A un anno dalla sua scomparsa vogliamo qui ricordare Stefano Rodotà, che è stato per la Fiom un importante punto di riferimento teorico e pratico. E’ stata la Fiat a farci incontrare, nell’estate del 2010: l’unica conseguenza positiva di ciò che Sergio Marchionne ha voluto imporre alle lavoratrici e ai lavoratori di Pomigliano – e poi a quelli di Mirafori e a tutti gli altri – è stato il rapporto che allora nacque tra la Fiom e Stefano Rodotà. Prima d’allora per noi era un’icona, un grande intelletuale e un rappresentante importante della sinistra, un “amico del popolo” – direbbero oggi, con un linguaggio che certo lui non avrebbe mai usato – di cui leggevamo e ascoltavamo articoli e interventi in cui potevamo riconoscerci; quella forma alta della politica fatta di pensiero profondo e azione conseguente di cui sentiamo la mancanza, sopratutto da quando di rappresentare il lavoro non se n’è curato più quasi nessuno.
Quasi, perché Stefano è uno dei pochi che non ha mai abdicato a tale impegno.
Anzi, mentre attorno ci si creava un deserto e con l’affermarsi di pensieri e pratiche che riducevano il lavoro a merce, subordinandone i diritti alle necessità del mercato, Stefano Rodotà non casualmente si occupava sempre più spesso delle persone che il sindacato vuole rappresentare. Fino a quell’incrocio imposto dall’amministratore delegato dell’allora Fiat. Quando il “professore” si materializzò davanti a noi, essendo uno dei pochissimi a denunciare l’ingiustizia e la pericolosità del metodo e del merito con cui Marchionne intendeva cambiare la vita nei suoi stabilimenti. Pericolosità per chi in quelle fabbriche viveva e lavorava ma anche per tutti gli altri fuori da lì, perché in quel metodo e in quelle misure Rodotà individuava un attacco alla stessa democrazia Da allora sarebbe stato sempre con noi e noi con lui, nelle piazze operaie – a Pomigliano come a Roma – e in quelle per la difesa della Costituzione e per un’Europa da cambiare e ricostruire – dalla “Via maestra” dell’ottobre 2011 alle iniziative sul referendum del 4 dicembre 2016.
Vale la pena ricordare qui alcuni passaggi di un suo intervento di fronte alle lavoratrici e ai
lavoratori di Pomigliano, nel novembre del 2012 Iniziò dicendo che chi stava dando ragione a quegli operai e alla loro battaglia non era “né Rodotà, né la Fiom, ma è la Costtuzione” e proseguì – trattando la piazza come un’aula universitaria – spiegando che eravamo di fronte a un potere che si stava ridistribuendo nel mondo globale, con una progressiva perdita di peso delle istituzioni pubbliche a favore di gruppi privati che minavano la divisione dei poteri, uno dei principi su cui si fonda la democrazia. Spiegò così a quei lavoratori e quelle lavoratrici, che loro non si stavano battendo solo per i loro diritti, ma per i diritti di tutti, “perché quando un luogo di lavoro non è più democratico, è la società che arretra, è la democrazia che viene messa in discussione”. E ciò avviene “anche che quando si sacrifica il diritto di un solo lavoratore, mettendo così in discussione la cittadinanza per tutti i cittadini”, citando l’articolo uno della Costituzione e definendo un “capolavoro” il suo articolo 1, quello che afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e per questo sono uguali davanti alla legge.
Quel giorno Rodotà ci ricordò anche che Marchionne non spuntava fuori dal nulla, ma era il
“prodotto” di decenni in cui “i diritti, la legalità, la magistratura erano stati messi sotto attacco da una aggressività e da una violenza padronale e istituzionale senza precedenti e che quindi la battaglia per affermare i diritti sociali e i diritti civili era la condizione per affermare la dignità delle persone”. E a proposito delle difficoltà di alcuni a partecipare allo sciopero proclamato quel giorno rammentò a tutti noi che “è normale che le persone abbiano paura di poter perdere il posto di lavoro e di poter essere licenziati, di essere discriminati, il punto è che siamo noi che dobbiamo alzare la voce contro la paura. Il punto è che la libertà della paura non è una libertà e per essere liberi, perché ci sia una vera democrazia, c’è bisogno che le persone possano essere libere sempre, a partire dal luogo di lavoro”.
Era tanto tempo che nessuno articolava in maniera così chiara e netta il legame tra lavoro, diritti e democrazia, indicando nel lavoro il “luogo” in cui i diritti e la democrazia si possono congiungere.
Con la conseguenza che, se questo non avviene, le ricadute sulla rappresentanza e sulle istituzioni sono profonde, determinando un distacco, una separazione tra i cittadini e la politica (ben visibili,ad esempio, nell’astensionismo elettorale di quest’ anni) proprio perché quest’ultima non riteneva più che i diritti fossero centrali per la salute di una democrazia.
Noi qui vogliamo ricordare questa parte del pensiero e dell’azione di Stefano Rodotà, quella che ci ha coinvolto direttamente, senza avere la pretesa di sintetizzare una vita e un pensiero ricchissimi che tanto hanno dato alla nostra Repubblica. La parte che in quegli anni riuscì a spiegare a noi e all’intero paese come il lavoro fosse centrale non solo perché determina (nel bene e nel male) la vita di milioni di persone o perché produce la ricchezza (o la povertà) di individui e comunità; ma anche perché rimane un terreno tutto politico, di carattere generale su cui si può misurare (o nascondere) costruire (o smantellare) la qualità democratica di un paese e delle sue istituzioni; come il lavoro sia il termometro con cui misurare la qualità delle relazioni tra gli individui e dei loro diritto. Diritto, che furono la vera “passione” della vita di Stefano, la chiave di lettura delle relazioni sociali in tutti i loro aspetti, dal lavoro ai beni comuni, dalle architetture costituzionali alle tutele personali nelle reti istituzionali come in quelle informatiche. I diritti inalienabili della persona, base della sua dignità, cui mai rinunciare e sempre sa rinnovare di fronte alle sfide di un mondo che cambia.
Noi qui vogliamo ringraziarlo per la capacità di coniugare il suo impianto teorico e politico con gli interessi dei lavoratori, con le nostre pratiche sindacali nell’esplicita convinzione che ci sia un legame stretto tra la democrazia e le condizione di vita materiale delle persone sui luoghi di lavoro.
Se il lavoro non basta per vivere, se c’è chi è povero pur lavorando e perciò non è libero, vuol dire che anche la società in quel momento è malata e la democrazia non può reggere. Questo ci pare sia stato uno dei punti di fondo nei ragionamenti di Stefano Rodotà.
Non un “semplice” richiamo alla Costituzione in senso generale, ma l’indicazione precisa di un’azione da mettere in campo per affermare i valori e i principi della Costituzione come battaglia politica e culturale generale. Proprio per questa ragione, questi pensieri e questa sua capacità rappresentano un’eredità anche pedagogica, un insegnamento per il futuro, una lezione per noi essenziale per poter proseguire sulla “via maestra”.
Presentazione al libro
Sulla via maestra, Democrazia, Lavoro, Europa. La lezione di Stefano Rodotà
Edito da Meta edizioni